Pochi soldi, zero diritti. Ora giustizia per i rider
Tante ore per strada, paghe da fame e nessuna tutela contrattuale: le condizioni di lavoro di queste figure proliferate all’epoca del lockdown sono inaccettabili e vanno disciplinate in modo più equo e aderente al dettato della nostra Costituzione
Riders, un lavoro del nuovo millennio? Per molti, giovani e meno giovani, più che altro una necessità. A bordo di un dueruote, col sole o con la pioggia, sfrecciano, orologio alla mano, per le vie della città. Il lockdown li ha visti centuplicarsi, ma molti di loro continuano a svolgere questo lavoro senza dovuta tutela.
Un esercito di lavoratori senza diritti. Tante ore per strada, poche soddisfazioni, stipendi spesso da fame. Molti, troppi, firmano contrattidebolissimi: uno su dieci è la media è il dato dei lavoratori in regola. Già, le regole. I riders sono solitamente diretti da capi “digitali ”. Vuole dire che un algoritmo decide i tempi, gli orari, i percorsi e le paghe. Il mercato
dei riders muove un capitale enorme, parliamo solo in Italia di 1,5 miliardi di fatturato nel 2021. Il volume di affari è cresciuto e continua a farlo e le aziende del “delivery food” sono in netta crescita. Ma le condizioni di non sono cambiate, mentre è evidente che i lavoratoti controllati da piattaforme digitali vadano inquadrati come lavoratori subordinati. ll disegno di legge del Governo italiano, che ricacalca quasi totalmente quello europeo, definisce la piattaforma di lavoro digitale come «l’insieme di programmi e procedure informatiche che definiscono le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa ». Il lavoro intermediato da piattaforma digitale sarebbe quindi sottoposto ai vincoli definiti dalla piattaforma stessa. La prestazione lavorativa si qualifica come subordinata se sono presenti almeno due dei seguenti cinque elementi: determinazione effettiva del corrispettivo o fissazione di un suo tetto massimo; obbligo di rispetta e regole vincolanti anche per quanto riguarda l’aspetto esteriore oppure il comportamento nei confronti del destinatario del servizio o l’esecuzione del lavoro; controllo, anche attraverso l’utilizzo di strumenti elettronici, dell’esecuzione del lavoro; limitazione, anche mediante sanzioni o conseguenze pregiudizievoli per il lavoratore, della libertà di organizzare il proprio lavoro in autonomia, in particolare della facoltà di scegliere l’orario di lavoro, di accettare o rifiutare incarichi o di avvalersi di subappaltatori o sostituti; limitazione della possibilità di costruire una propria clientela o di svolgere prestazioni lavorative per terzi.
Con il riconoscimento del lavoro subordinato verrebbero riconosciute a riders e altri lavoratori le tutele tipiche, ovvero: trattamento economico contrattuale, disciplina antidiscriminatoria, salute e sicurezza sul lavoro, assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali. Fa eccezione Just Eat, azienda che ha fatto sottoscrivere già un contratto di lavoro subordinato, un contratto collettivo nazionale di lavoro settore trasporti: uno stipendio di base di 8,50 euro l’ora, un premio di 0,25 euro a consegna e il tfr oltre agli straordinari e i festivi. Non male rispetto al restante popolo delle due ruote che ci ha abituati a consegne a domicilio, comodamente seduti in divano. Ma la realtà di questa “nuova schiavitù” si traduce in un dato inequivocabile: 6 euro l’ora. Dovrebbe suscitare vergogna tale forma di capitalismo“drogato” da algoritmi digitali, capace di rendere disumano anche il lavoro del fattorino, che si presenta alla porta e dopo la consegna riprende la corsa. E sarebbe il caso di riflettere quando al telefono protestiamo perché “del ragazzo delle pizze non è ancora arrivato”: potrebbe anche essersi fatto male per strada, mentre correva a soddisfare un bisogno del nostro palato in una notte d’inverno. Arriverà il momento della giusta regolamentazione del loro impegno? Ce lo auguriamo come atto di civiltà, ma soprattutto come principio di affermazione di un sacrosanto diritto costituzionale.









