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Collaboratori volontari, obblighi formativi e informativi: un chiarimento giunge dalla Cassazione.

Raffaele Tovino • 21 ottobre 2024

Una questione di sicuro interesse è quella relativa agli obblighi formativi e informativi che il decreto legislativo 81/08 impone al datore di lavoro quale soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o che comunque ha la responsabilità dell'organizzazione dell’attività in quanto vi esercita i poteri decisionali e di spesa.

Sul tema è intervenuta di recente la Corte di Cassazione (sent. 25756/2024) chiamata a pronunciarsi in merito ad una vicenda riguardante l’aggressione subita da una volontaria di un rifugio per cani, attaccata da un pitbull mentre era intenta a trasferire l’animale dalla gabbia al recinto di sgambamento.

Aggressione a seguito della quale il gestore della struttura riportava una condanna per lesioni personali aggravate dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Nella pronuncia in commento, particolarmente significativa per quel che concerne la sicurezza sul lavoro, i giudici della Cassazione hanno evidenziato come il datore di lavoro assuma una posizione di garanzia nei confronti di chiunque presti il proprio lavoro, anche occasionalmente e su base volontaria, rispondendo, pertanto, delle eventuali lesioni personali cagionate dall'omessa adozione delle misure necessarie a prevenire gli infortuni sul lavoro.

Evidenzia ancora la Suprema Corte come l'approntamento di misure di sicurezza e quindi il rispetto delle norme antinfortunistiche esuli dalla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, dovendo riconoscersi tutela anche in fattispecie di lavoro prestato per amicizia, per riconoscenza o comunque in situazione diversa dalla prestazione del lavoratore subordinato, purché detta prestazione sia stata effettuata in un ambiente che possa definirsi "di lavoro".

Quindi anche nell’ambito del volontariato, il datore di lavoro è tenuto a formare i collaboratori volontari sullo svolgimento in sicurezza delle attività operative, provvedendo ad individuare ed eliminare, per quanto possibile, o comunque ridurre i rischi inerenti all'attività svolta, nonché a fornire ai predetti volontari dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti negli ambienti nei quali sono chiamati ad operare e ad adottare le misure di prevenzione e di emergenza in relazione alle rispettive attività.


Raffaele Tovino


Autore: Raffaele Tovino 23 ottobre 2024
Negli ultimi anni, il tema dell'uso di droghe sul posto di lavoro ha assunto una crescente rilevanza, sia per le conseguenze sulla sicurezza sia per l'impatto sulla produttività e il benessere dei lavoratori. In Italia, la normativa che disciplina il consumo di sostanze stupefacenti o psicotrope in ambito lavorativo si è evoluta per garantire non solo la tutela della salute dei lavoratori, ma anche la sicurezza sul luogo di lavoro. Normativa di Riferimento La principale norma che regola l'uso di droghe sul lavoro è il Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro (D.Lgs. 81/2008), il quale pone l'accento sull'importanza di prevenire comportamenti a rischio che potrebbero mettere in pericolo la salute e la sicurezza, sia del lavoratore che dei suoi colleghi. L'articolo 41 del Testo Unico prevede che i lavoratori esposti a particolari rischi, come coloro che operano su macchinari o in settori dove l'attenzione e la prontezza sono essenziali, debbano sottoporsi a sorveglianza sanitaria obbligatoria. Questa include anche la possibilità di effettuare test tossicologici per rilevare l'eventuale presenza di sostanze stupefacenti. Tra le mansioni particolarmente a rischio troviamo: Operatori di macchinari industriali Autisti di mezzi di trasporto pesante Lavoratori in quota Addetti alla movimentazione di materiali pericolosi L'obbligo di sottoporre a controlli questi lavoratori è stabilito dall'Accordo Stato-Regioni del 30 ottobre 2007, che specifica le modalità di sorveglianza e di screening, indicati come strumento di prevenzione di incidenti. Controlli e Test Tossicologici I controlli antidroga sul lavoro devono essere svolti secondo protocolli ben definiti, rispettando la privacy del lavoratore. I test tossicologici possono essere disposti sia in fase di assunzione che periodicamente durante l'impiego. In caso di positività, il lavoratore non può essere licenziato immediatamente, ma viene avviato verso un percorso di riabilitazione e può essere sospeso temporaneamente dalle mansioni a rischio. Le fasi del controllo sono generalmente le seguenti: Identificazione delle mansioni a rischio: Il datore di lavoro, in collaborazione con il medico competente, identifica i ruoli per i quali è necessario effettuare i controlli. Sorveglianza sanitaria: Il medico competente svolge visite periodiche e può richiedere test tossicologici in base alla mansione svolta. Esito dei test: Se il risultato è positivo, il lavoratore può essere sospeso temporaneamente dalle attività pericolose e indirizzato verso un programma di recupero. Riservatezza dei dati: I risultati dei test devono essere trattati con la massima riservatezza e possono essere condivisi solo con il medico competente e con il datore di lavoro, nel rispetto della normativa sulla privacy (GDPR). Responsabilità del Datore di Lavoro Il datore di lavoro ha la responsabilità di garantire un ambiente di lavoro sicuro, libero da qualsiasi rischio legato all'uso di sostanze stupefacenti. Questo si traduce nell'obbligo di adottare tutte le misure necessarie per prevenire incidenti causati da lavoratori sotto l'influenza di droghe. Nel caso in cui il datore di lavoro non provveda ai dovuti controlli, rischia di essere sanzionato penalmente in caso di incidenti. Inoltre, l'omessa sorveglianza può comportare responsabilità civili per danni causati a terzi. Recupero e Reintegrazione La normativa non è punitiva nei confronti del lavoratore che fa uso di droghe, ma prevede percorsi di recupero e reintegrazione. Il lavoratore positivo ai test può essere avviato a programmi terapeutici, mantenendo il diritto al lavoro, seppure temporaneamente sospeso dalle mansioni rischiose. Il reinserimento avviene solo dopo la certificazione di completa riabilitazione. Conclusione La normativa italiana in materia di droga e lavoro cerca di bilanciare le esigenze di sicurezza con il diritto alla salute e alla privacy dei lavoratori. I controlli tossicologici rappresentano uno strumento essenziale per prevenire incidenti sul posto di lavoro, soprattutto in settori ad alto rischio, ma devono essere condotti nel rispetto della dignità e dei diritti del lavoratore. Per i datori di lavoro, è fondamentale essere informati e attuare politiche preventive adeguate, così da garantire la sicurezza di tutti i dipendenti. Raffaele Tovino
Autore: Raffaele Tovino 14 ottobre 2024
La 74ª Giornata Mondiale per la Sicurezza sul Lavoro, celebrata ieri, offre un’importante occasione per riflettere sullo stato della sicurezza nei luoghi di lavoro a livello globale. Ogni anno, milioni di lavoratori subiscono infortuni o perdono la vita a causa di incidenti sul lavoro, malattie professionali e altre condizioni legate alla sicurezza nei luoghi di lavoro. Nonostante gli sforzi delle istituzioni, dei sindacati e delle imprese, il numero di incidenti gravi e mortali non mostra segni di una significativa diminuzione, anzi in alcuni settori è in aumento. Questa situazione richiede un’analisi approfondita delle cause, delle mancanze normative e delle soluzioni praticabili che potrebbero finalmente portare a un cambiamento tangibile. La Persistenza del Problema: Dati e Statistiche Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), ogni anno nel mondo si verificano circa 2,3 milioni di decessi legati al lavoro. Questi decessi includono incidenti mortali e malattie professionali che derivano dalle condizioni lavorative. Se consideriamo solo gli incidenti, parliamo di circa 340.000 morti ogni anno, una cifra che indica chiaramente che il problema della sicurezza sul lavoro è ancora molto lontano dall’essere risolto. In Italia, i dati forniti dall’INAIL confermano una tendenza preoccupante. Nel 2023, sono stati denunciati più di 550.000 infortuni, di cui oltre 1.400 con esito mortale. Questi numeri, nonostante una leggera flessione rispetto agli anni precedenti, sono ancora inaccettabili, soprattutto in un contesto in cui le tecnologie di prevenzione sono sempre più avanzate e accessibili. Le Cause dei Problemi di Sicurezza sul Lavoro Le cause alla base di questa problematica complessa sono molteplici. In primo luogo, l’errata valutazione dei rischi nei luoghi di lavoro è un fattore determinante. Spesso, le aziende non investono sufficientemente nella formazione dei lavoratori in materia di sicurezza, oppure non rispettano le normative vigenti. La mancanza di cultura della sicurezza è un aspetto critico che spesso viene trascurato, soprattutto nelle piccole e medie imprese, dove le risorse destinate a tali programmi sono limitate. Un’altra causa di questa situazione è l’evoluzione del mondo del lavoro. Con l’introduzione di nuove tecnologie, come la robotica avanzata e l’intelligenza artificiale, sono sorti nuovi tipi di rischi. I lavoratori, in molti casi, non sono adeguatamente preparati a gestire queste nuove realtà, e le normative stentano a tenere il passo con le innovazioni. Inoltre, vi sono differenze notevoli a livello di sicurezza tra i vari settori lavorativi. Settori come l’edilizia, l’agricoltura e i trasporti continuano a registrare un elevato numero di incidenti, dovuto alla natura intrinsecamente rischiosa delle attività svolte. Questi comparti sono spesso caratterizzati da lavori manuali e l’uso di attrezzature pesanti, e il rischio di incidenti gravi è sempre dietro l’angolo. La Responsabilità delle Istituzioni e delle Imprese Le istituzioni hanno un ruolo fondamentale nel garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro. Tuttavia, vi sono delle criticità evidenti nell’applicazione e nel monitoraggio delle normative esistenti. Le leggi, in molti Paesi, sono obsolete o non sufficientemente severe, e le ispezioni sul lavoro sono spesso inadeguate o insufficienti. Questo è particolarmente vero nelle aree del mondo in cui il lavoro informale è diffuso e in cui le normative di sicurezza sono deboli o inesistenti. In Italia, ad esempio, il Testo Unico sulla Sicurezza del Lavoro (D.Lgs. 81/2008) rappresenta un ottimo strumento legislativo, ma la sua applicazione risente di vari fattori, tra cui la carenza di risorse per le ispezioni e la lentezza burocratica. Molte aziende, soprattutto quelle più piccole, non riescono a tenere il passo con gli adempimenti richiesti, e questo contribuisce ad aumentare il rischio di incidenti. Dal lato delle imprese, vi è spesso una mancanza di attenzione alla sicurezza sul lavoro, specialmente quando si parla di riduzione dei costi. Laddove si cerca di massimizzare i profitti, le spese per la sicurezza vengono considerate secondarie. Questo è un errore grave, poiché non solo espone i lavoratori a rischi inutili, ma ha anche un impatto negativo a lungo termine sulle stesse aziende, che devono far fronte a costi legati agli incidenti, come risarcimenti, danni all’immagine e perdita di produttività. La Cultura della Sicurezza: Un Aspetto Fondamentale Un elemento essenziale per migliorare Raffaele Tovino
Autore: Raffaele Tovino 1 ottobre 2024
Nel corso degli anni ho avuto modo di osservare da vicino come nel settore edilizio sia fondamentale mantenere alti gli standard di sicurezza e qualità. Le sfide non mancano, ma oggi c'è uno strumento che sta rivoluzionando il modo in cui le imprese edili lavorano: la “patente a crediti”. Per chi non ne ha mai sentito parlare, si tratta di un sistema di valutazione che premia le aziende virtuose in base a diversi parametri legati alla sicurezza sul lavoro, alla formazione e al rispetto delle normative. In questo articolo, vi racconto cos'è la patente a crediti, come funziona e perché credo sia un passo avanti per il nostro settore. Cos'è la patente a credito? La patente a crediti è, di fatto, un sistema di “punteggio” che viene attribuito alle imprese del settore edile in base al loro comportamento. Ogni impresa accumula crediti in base a come gestisce la sicurezza sul lavoro, alla formazione dei dipendenti e alla conformità con le normative. Più un'azienda è virtuosa, più accumula crediti e, di conseguenza, ottiene dei vantaggi, come accesso facilitato agli appalti o agevolazioni economiche. Personalmente trovo che sia un sistema intelligente. In un settore come quello edile, dove spesso si cerca di risparmiare sulle spese a discapito della sicurezza, la patente a crediti spinge le aziende a fare la cosa giusta. Premia chi investe in sicurezza e formazione, e penalizza chi invece non rispetta le regole.  Perché è importante? La patente a crediti ha obiettivi molto chiari, che condivido pienamente: Migliorare la sicurezza sul lavoro. La sicurezza, lo dico sempre, è la priorità numero uno. Questo sistema aiuta a capire alle imprese quanto sia fondamentale investire nella prevenzione e protezione dei lavoratori. Se si lavora in modo sicuro, si evitano incidenti e si guadagnano punti preziosi nella patente di credito. Raffaele Tovino
Autore: Raffaele Tovino 23 aprile 2023
Chi si aspettava di vedere rafforzata la sanità pubblica, soprattutto laddove essa è più carente e cioè al Sud, è destinato a rimanere deluso. Nel Def recentemente licenziato dal Consiglio dei ministri, si prevede infatti, nell’immediato, una riduzione della spesa per il personale sanitario seguita, nel medio-lungo periodo, da un aumento piuttosto contenuto. Tanto che molti, anche tra i non addetti ai lavori, hanno cominciato a chiedersi: come pensa, il governo Meloni, di migliorare la qualità dell’assistenza oltre che colmare tutte le lacune che la pandemia ha impietosamente evidenziato? La domanda non è peregrina se analizziamo i numeri. Il Def parla di payback per i dispositivi medici e di incentivi per rispondere alla carenza di personale nei pronto soccorso, ma dice poco o nulla sull’operatività delle case e degli ospedali di comunità contemplati dal Pnrr. Quest’ultimo, infatti, prevede che le Regioni realizzino 1.350 case di comunità e 400 ospedali di comunità con l’obiettivo rafforzare la medicina territoriale. In Emilia- Romagna, unica regione italiana a vantare già un certo numero di cosiddette “case della salute”, questa rete ha dimostrato di funzionare: gli accessi inappropriati al pronto soccorso sono diminuiti di oltre il 16% e i ricoveri per patologie croniche del 2,4%, mentre è aumentata del 9,5% l’assistenza medica e infermieristica a domicilio. Nelle case di comunità, però, si prevede la presenza di 7-11 infermieri, di un assistente sociale e di 5-8 unità di supporto. Numeri simili per gli ospedali di comunità, dove dovrebbero lavorare tra 7 e 9 infermieri, un medico e un paio di unità di altro personale sanitario. Insomma, per conseguire i risultati già registrati in Emilia-Romagna servirebbe un “esercito” di nuovi medici e infermieri. E invece il governo Meloni che cosa fa? Nel Def ipotizza una riduzione della spesa per il personale sanitario al 6,2% del pil nel 2025 e un aumento al 7% tra il 2040 e il 2050. Proprio così. Il rischio, però, è che senza quell’esercito di medici e infermieri che appare già da tempo indispensabile, la “guerra” per il miglioramento dell’assistenza territoriale sia destinata a essere persa. Guardiamo in casa nostra: nella sola Asl di Bari, fino a poche settimane fa, risultavano non coperti 19 posti di assistenza primaria del 2022, ai quali se ne aggiungeranno altri nel 50 nel 2023, con la conseguenza che mancano all’appello ben 69 medici di famiglia. Non va meglio per i medici ospedalieri: secondo la Cgil, che poche settimane fa è scesa in piazza per protestare proprio contro le inefficienze della sanità locale, ne mancano all’appello addirittura 3mila in tutta la Puglia. In definitiva, ci sono edifici da costruire e nuovi servizi da strutturare, ma Palazzo Chigi sembra non avere le idee troppo chiare su come intende animare quegli stessi edifici e quegli stessi luoghi. Poco dice sulle risorse disponibili per assumere il personale, ma ancora meno parla di specializzazioni, formazione universitaria e programmazione delle figure professionali indispensabili per rivoluzionare la società e magari correggere le antiche sperequazioni che, anche sotto il profilo dell’assistenza, ha contrapposto regioni di serie A e di serie B. Sul personale servono scelte strategie chiare. Altrimenti il Paese dimostrerà di aver capito poco o nulla della dura lezione impartita dal Covid. Raffaele Tovino dg A.N.A.P.
Autore: Raffaele Tovino 16 aprile 2023
Certo, lo scenario economico impone prudenza. Eppure non sembra ingeneroso sottolineare come al Documento di economia e finanza (Def), recentemente licenziato dal Consiglio dei ministri, manchi il coraggio indispensabile per rilanciare l’Italia, a cominciare dal Sud, una volta per tutte. Lo dimostrano due aspetti del testo illustrato dal ministro Giancarlo Giorgetti: le poche risorse destinate alla riduzione del cuneo fiscale e la mancata previsione di misure realmente in grado di sostenere le imprese e, per questa strada, gli investimenti e le assunzioni. Partiamo dal primo elemento. Nel Def spiccano maggiori risorse sul 2023 che il governo Meloni ha prudentemente quantificato in tre miliardi e che saranno spese per portare la crescita del pil dallo 0,9 all’1%. Sempre il governo Meloni ha annunciato che quei soldi saranno utilizzati per la riduzione del cuneo fiscale, attraverso un taglio dei contributi sociali in busta paga, a beneficio dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi. Si tratta di un segnale positivo, ma l’entusiasmo cede ben presto il passo alla delusione se si riflette su alcuni dati: in Italia ci sono 23 milioni di lavoratori, sicché tre miliardi non bastano per far sì che il taglio dei contributi sociali sia percepito nel momento in cui una parte di quegli stessi lavoratori incassa lo stipendio. In altri termini, il beneficio si tradurrebbe in pochi euro in più al mese. Ma che se ne fa un lavoratore, magari con moglie e un paio di figli a carico, di una pizza o di un pacchetto di sigarette in più ogni trenta giorni? Quando nel 2014 introdusse il bonus di 80 euro, l’allora governo Renzi stanziò dieci miliardi, più del triplo di quanto oggi prevede l’esecutivo Meloni. L’altro aspetto riguarda le imprese. Nei suoi 12 punti, di fatto, il Def le dimentica. All’interno del testo, infatti, c’è soltanto la promessa di una riduzione dell’Ires per le imprese che assumono o che fanno determinati tipi di investimenti. Il resto è un mare magnum di generiche previsioni di aiuti contro l’inflazione e di misure per il rafforzamento della capacità produttiva. Si parla di una riduzione della pressione fiscale dall’attuale 43,3 al 42,7% nel 2026, il che lascia sicuramente ben sperare. Ma è troppo poco per un Paese in cui decenni di miopi politiche di sviluppo, burocrazia in costante crescita e continue crisi congiunturali hanno devastato quelle piccole e medie imprese che da sempre costituiscono il tessuto connettivo dell’economia nazionale. Tirando le somme, propositi come la riduzione della pressione fiscale e il rafforzamento della capacità produttiva sono certamente condivisibili, soprattutto per quanto riguarda il Mezzogiorno. Certi obiettivi, però, vanno perseguiti con le giuste risorse e con le giuste strategie. Altrimenti rischiano di tramutarsi nell’ennesimo spot elettorale, magari utile per guadagnare qualche punto nei sondaggi o una manciata di voti in più in occasione delle elezioni, ma certo non per rilanciare un Paese che ha invece bisogno di sviluppo, prospettive e fiducia. Raffaele Tovino *dg Anap
Autore: Raffaele Tovino 9 aprile 2023
A un occhio poco attento, i numeri del decreto appena approvato dal Consiglio dei ministri potrebbero sembrare straordinari: 1.057 assunzioni nei Ministeri, di cui 300 al Viminale, e altre 1.968 nelle forze dell’ordine, senza dimenticare la possibilità di stabilizzare i precari che negli ultimi otto anni abbiano lavorato per almeno 36 mesi non consecutivi al servizio di Comuni, Città metropolitane, Province e Regioni. Il tutto per colmare quelle carenze di organico, più volte sottolineate dalla Svimez con specifico riferimento agli enti locali, che stanno rallentando l’attuazione del Pnrr e hanno portato il ministro Raffaele Fitto a giudicare addirittura “matematica ” la mancata realizzazione di alcuni progetti contenuti nel Piano entro il 2026. A parte la perplessità relativa al Ministero della Giustizia, inspiegabilmente escluso dal programma di reclutamento straordinario di personale appena varato dal governo Meloni, c’è un aspetto che merita di essere sottolineato. Il decreto risponde all’esigenza di “rimpolpare” a stretto giro le pubbliche amministrazioni direttamente coinvolte nell’attuazione del Pnrr, ma non è certo una misura strutturale capace di risolvere una volta per tutte l’atavico problema della carenza di organico negli enti pubblici. Ed è proprio sulla necessità di un grande programma di rafforzamento della pubblica amministrazione, soprattutto al Sud, che Palazzo Chigi dovrebbe ragionare e intervenire in modo serio. L’Italia, infatti, è reduce da un decennio drammatico in cui il blocco del turnover ha ridotto il personale in servizio negli enti pubblici da 3,5 a 3,2 milioni (dunque di ben 300mila unità), facendo peraltro salire l’età media dei dipendenti a 50 anni. La Puglia non è estranea a questa tendenza, se si pensa che a Bari e dintorni mancano all’appello circa 10mila dipendenti pubblici, come il segretario della Cgil Fp locale Domenico Ficco ha opportunamente ricordato sulle pagine de “L’Edicola del Sud”: una voragine che il decreto appena licenziato dal Consiglio dei ministri non riuscirà mai a colmare. Soltanto nel 2021, in Italia, si è ripreso ad assumere, mentre nel 2022 gli ingressi nella pubblica amministrazione sono stati circa 170mila, di cui 156mila volti a sostituire il personale pensionato. Per il 2023, stando a quanto annunciato dal ministro Paolo Zangrillo, sono in programma altre 150mila assunzioni e così si andrà avanti anno fino al 2026. Certo, gli sforzi compiuti dal governo Meloni per superare l’impasse del Pnrr e rafforzare la pubblica amministrazione lasciano ben sperare. Ma bisogna fare molto di più per far sì che il Paese si dimostri all’altezza delle sfide epocali dalle quali è atteso nei prossimi anni. È indispensabile, innanzitutto, semplificare e sburocratizzare le procedure di reclutamento all’interno della pubblica amministrazione. La pandemia ha di fatto costretto l’Italia a dematerializzare tanti passaggi di quell’iter, puntando su un’ampia digitalizzazione di documenti e step procedimentali. Non ci si può né ci si deve accontentare, ma piuttosto bisogna impegnarsi per rendere le assunzioni nel settore pubblico sempre più “smart”, seppur nel doveroso rispetto dei criteri di trasparenza. Altrettanto indispensabile è rendere il lavoro nella pubblica amministrazione maggiormente attrattivo. Il che non vuol dire soltanto retribuire in modo dignitoso i dipendenti, ma far comprendere loro che nel settore pubblico possono crescere a livello personale, da un lato, e, dall’altro, contribuire in maniera decisiva allo sviluppo della comunità nazionale. Quindi non si tratta semplicemente di rispondere alla “emergenza” rappresentata dal Pnrr, ma di attrezzare l’Italia in vista di una lunga serie di appuntamenti di cruciale importanza. Anche da questo si misureranno la credibilità e la visione politica dell’attuale classe politica. Raffaele Tovino *dg Anap
Autore: Raffaele Tovino 3 aprile 2023
E ora? Che ne sarà del Pnrr? L’interrogativo sorge spontaneo se si pensa alle parole del ministro Raffaele Fitto che ha detto di ritenere “matematico” il mancato conseguimento di tutti gli obiettivi entro il 2026, senza però chiarire quali siano i progetti a rischio. Tralasciando il “difetto di comunicazione” dell’ex presidente pugliese, che con le sue frasi criptiche ha alimentato polemiche e tensioni delle quali tutti avrebbero fatto a meno, è d’obbligo una riflessione sul ruolo attribuito agli enti locali nell’attuazione del Pnrr. A cominciare dai Comuni, titolari di investimenti per 28 miliardi. Di questi soggetti istituzionali, oltre che di Ministeri e Regioni, non è stata considerata la storica fragilità. Ed è proprio questo l’errore commesso dai governi che si sono finora alternati nella gestione del Pnrr. La debolezza di enti come i Comuni non è stata compensata da misure volte non solo a colmare le carenze di organico, ma anche e soprattutto a dotare tutte le pubbliche amministrazioni di competenze specialistiche adeguate. A nulla sono valsi gli alert lanciati dalla Svimez che ha più volte sottolineato l’inadeguatezza delle macchine comunali chiamate ad affrontare la “corsa” del Pnrr.A questa situazione il governo Meloni ha inteso rimediare istituendo la struttura di missione che, dipendendo direttamente dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, è strettamente legata alla stessa premier. In più, Palazzo Chigi ha previsto il dimezzamento dei tempi entro i quali devono essere vagliati i vari progetti e previsto la possibilità di un commissariamento nell’ipotesi in cui gli enti locali non siano in grado di rispettare le scadenze degli interventi. Basterà quest’opera di riorganizzazione? Il rischio è che il rimedio sia peggiore del male e la Corte dei conti l’ha chiarito senza troppi giri di parole. Secondo la magistratura contabile, infatti, la riorganizzazione richiede “un’attua zione senza soluzione di continuità con gli attuali moduli organizzativi, al fine di evitare che la fase di avvio delle nuove strutture sia caratterizzata da tempistiche e difficoltà simili a quelle già segnalate con conseguenti rischi di rallentamenti nell’azione amministrativa proprio nel momento centrale della messa in opera di investimenti e riforme”. Insomma, se è vero che l’Italia ha finora rispettato tutte le scadenze semestrali previste dal Pnrr e che non più tardi del 30 dicembre scorso ha comunicato alla Commissione europea di aver centrato tutti i 55 obiettivi fissati per il periodo giugno- dicembre 2022, è altrettanto lecito chiedersi se il Paese sarà in grado di completare tutti gli interventi entro il 2026, anche e soprattutto alla luce delle modifiche gestionali introdotte dal governo Meloni. Le perplessità non mancano e sono di non poco peso, come la Corte dei conti ha giustamente osservato. Anche perché qui ci sono in gioco due valori: la credibilità dell’Italia a livello internazionale, a cominciare da quelle istituzioni europee che hanno sempre guardato Palazzo Chigi con un certo sospetto, e il rilancio del Mezzogiorno, che non può certo prendersi il lusso di veder passare il treno del Pnrr. Raffaele Tovino *dg Anap
Autore: Raffaele Tovino 27 marzo 2023
Il sì del governo Meloni al ponte sullo stretto di Messina è stato accompagnato dalla solita ridda di cifre, altolà e polemiche: da una parte il ministro Matteo Salvini, secondo il quale l’opera darebbe lavoro a 120mila persone e costerebbe meno di un anno di reddito di cittadinanza; dall’altra, invece, il solito ambientalismo radical chic, sempre pronto a opporsi a certe infrastrutture strategiche. Nel mezzo c’è la posizione, prudente ma realista e non ottusamente ideologica, del sindaco napoletano Gaetano Manfredi che dovrebbe ispirare un dibattito serio sulle grandi opere. Il primo cittadino della terza città d’Italia si è detto sostanzialmente favorevole al ponte sullo stretto, compiendo così un atto di assoluta rilevanza politica. Le sue parole, infatti, sono quelle di un sindaco espressione di Pd e M5s che però, su questo punto, sceglie di parlare da ingegnere e non da politico. Manfredi non piega le ragioni della tecnica a quelle dell’ideologia, accetta di entrare in conflitto anche con l’ambientalismo radicale che sostiene la sua amministrazione comunale e, come hanno fatto la premier Meloni e il segretario Cgil Landini, alimenta l’indispensabile confronto. Il confronto pubblico è necessario sui temi strategici per lo sviluppo dell’Italia e, in particolare, del Sud. Al momento, invece, gli steccati ideologici sembrano insuperabili. Salvini “spara” cifre monstre proprio come hanno fatto, in passato, altri esponenti politici: nel 2001 l’allora leader del centrosinistra Francesco Rutelli parlava di 17mila nuovi posti di lavoro in sette anni; nel 2011 l’allora ministro Altero Matteoli ipotizzava 40mila assunzioni l’anno; nel 2016 l’ex premier Matteo Renzi ipotizzava 100mila occupati in più, ma senza specificare le fonti e distinguere tra contratti direttamente legati ai lavori e indotto. Insomma, parole e numeri troppo spesso enunciati per mera convenienza politica. Sulla sponda opposta, invece, restano gli alfieri dell’ambientalismo cieco, quello che si oppone sempre a tutto e a prescindere, e gli immancabili ben altristi, quelli per i quali l’opera o la misura indispensabile per il Sud e per l’Italia è puntualmente un’altra. Sarebbe il caso, dunque, di aprire un dibattito serio sulle grandi opere e, soprattutto, sulle condizioni in cui tanto le pubbliche amministrazioni quanto le imprese si trovano a operare. Pensiamo al Pnrr. Nel corso di un convegno organizzato dall’Ance a Lecce, per esempio, i sindacati hanno evidenziato quanto sia difficile rispettare il cronoprogramma dettato dall’Europa, soprattutto per quanto riguarda i 21 progetti di efficientamento energetico e riqualificazione urbana. In Puglia occorrono mediamente nove anni, Bruxelles pretende che i cantieri vengano chiusi in sei. Bisogna, dunque, trovare soluzioni per rafforzare gli organici delle pubbliche amministrazioni chiamate a vagliare i progetti, sostenere le imprese nel reperire manodopera qualificata, evitare in tutti i modi che le grandi opere restino confinate nel libro dei sogni e che il Pnrr si riveli un clamoroso flop. Per farlo, però, è indispensabile andare oltre gli steccati ideologici, aprirsi al confronto e ragionare sulla base dei numeri e non del proprio tornaconto elettorale. Manfredi ci ha provato. Altri ci riusciranno? Raffale Tovino *dg Anap
Autore: Raffaele Tovino 18 marzo 2023
C’è una novità nel decreto approvato dal Consiglio dei ministri riunito a Cutro, la cittadina calabrese al largo della quale si è verificato il naufragio costato la vita a 72 migranti. Una novità che potrebbe segnare una svolta importante per le imprese agricole e turistiche, perno dell’economia di regioni come Puglia e Basilicata. Mi spiego: dai primi cinque articoli del testo traspare una maggiore apertura all’immigrazione per lavoro che, se per un verso non risolve il problema del diritto d’asilo per i disperati in fuga da fame e guerre, per l’altro risponde alle istanze di migliaia di imprese a caccia di manodopera. Bene così, dirà qualcuno. Sì, se non fosse per la solita burocrazia e per alcune discutibili scelte del Governo che rischiano di rivelarsi controproducenti. Partiamo dalle norme appena approvate. L’allargamento dei flussi di lavoratori extracomunitari in ingresso nel triennio 2023-2025 sarà definito con Dpcm, anche in base all’analisi del fabbisogno del mercato del lavoro, al pari delle quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato per lavoro subordinato, stagionale o autonomo. Le verifiche in relazione agli ingressi dei stranieri spettano, per quanto riguarda l’osservanza dei contratti e la congruità del numero delle richieste presentate, ai consulenti del lavoro e alle organizzazioni datoriali più rappresentative sul piano nazionale. Superati i controlli, viene rilasciata l’asseverazione che il datore è tenuto a produrre insieme con la richiesta di assunzione dello straniero. Non sono tenute a presentare alcuna asseverazione, invece, le associazioni di categoria più rappresentative che abbiano sottoscritto un protocollo col quale si impegnano a garantire l’osservanza delle norme contrattuali da parte dei propri associati. La prima perplessità riguarda l’effettivo snellimento delle procedure per l’ingresso e l’assunzione degli stranieri. Alla costante priorità che la destra riconosce alle istanze securitarie, infatti, si aggiunge la necessità di verificare la disponibilità di candidati italiani per i posti vacanti. Il governo italiano, dunque, intende muoversi in maniera differente rispetto a quelli di Francia, Spagna e Germania che alla carenza di manodopera rispondono sanando, su base individuale, la posizione degli immigrati irregolari già inseriti nel mercato del lavoro, senza però appesantire le già farraginose procedure con ulteriori verifiche e autorizzazioni all’ingresso. Non bisogna dimenticare, inoltre, che il decreto prevede quote riservate ai lavoratori di “Stati-amici” che promuovano campagne mediatiche sui rischi dell’immigrazione irregolare: significa che le maglie saranno più larghe per i tunisino, ad esempio, e meno larghe per chi proviene da altri territori. Sullo sfondo, poi, resta il problema dei numeri. Il primo decreto flussi ha assicurato ad agricoltura e turismo una quota di lavoratori stagionali pari 44mila unità, a fronte dei 42mila previsti nel 2021, riservandone 22mila, a fronte dei 14mila del 2021, alle organizzazioni agricole firmatarie di un protocollo col Ministero del Lavoro. Può bastare? Ancora no, se si pensa che, secondo Coldiretti, alle imprese agricole servono almeno 100mila stagionali che, al momento, sembrano introvabili. Il pericolo, dunque, è che le innegabili aperture contenute nel decreto di Cutro e nel decreto flussi siano neutralizzate dalla burocrazia, resa sempre più pachidermica dall’impostazione ideologica e dalle istanze securitarie che il governo di destra intende assecondare. Servirebbero, invece, procedure più snelle e più coraggio per rispondere alla carenza di personale che, dopo la crisi legata al Covid e quella conseguente alla guerra in Ucraina, rischia di paralizzare migliaia di imprese, soprattutto nel Mezzogiorno. Raffale Tovino *dg Anap
Autore: Raffaele Tovino 12 marzo 2023
RAFFAELE TOVINO* La bozza di riforma fiscale ipotizzata dal Governo ha riaperto il dibattito non solo sull’abnorme quantità di tasse che gli italiani devono pagare, ma anche sulla necessità di interventi volti a ridurre le disuguaglianze sociali. In questo senso, si sa, l’imposizione fiscale è uno strumento formidabile ed è proprio su tale aspetto che si appuntano le critiche di molti addetti ai lavori. Alla riforma ipotizzata dal governo Meloni si contesta la volontà di migliorare la condizione del ceto medio-alto, privilegiando i lavoratori autonomi, col rischio di disegnare un sistema iniquo, in cui le frange più deboli della popolazione devono fare i conti anche con la stretta su uno strumento di protezione sociale come il Reddito di cittadinanza. L’ampliamento dei divari, dunque, è sempre in agguato ma, nello stesso tempo, uno strumento capace di rafforzare l’occupazione, stimolare i consumi e nel contempo ridurre le disuguaglianze c’è e si chiama taglio del cuneo fiscale. Basta dare un’occhiata all’ultimo rapporto Taxing Wages stilato dall’Ocse per comprendere come, nel nostro Paese, il peso del fisco sul lavoro sia tra i più consistenti del mondo industrializzato, soprattutto per quanto riguarda i lavoratori con figli a carico. Nel 2021 la differenza tra il costo per il datore di lavoro e la retribuzione netta percepita dal dipendente è stato pari al 46,5%, in calo di 0,4 punti rispetto al 2020 ma comunque tale da collocare l’Italia al quinto posto della poco lusinghiera classifica dei Paesi aderenti all’Ocse in cui il cuneo fiscale è più alto. Numeri che hanno spinto il governo Meloni a prevedere, nella legge di bilancio per il 2023, uno sconto sulle trattenute in busta paga pari al 3% per chi ha una retribuzione lorda annua fino a 25mila euro, cioè per 15 milioni di persone, e pari al 2% per chi invece guadagna tra 25mila e 30mila euro lordi ogni anno. L’obiettivo è portare il taglio del cuneo fiscale al 5% entro i prossimi tre anni, come ha precisato il ministro Adolfo Urso. Ecco, il taglio del cuneo fiscale può compensare quel vantaggio che alla classe medio-alta deriverebbe dalla rimodulazione degli scaglioni Irpef, dall’abolizione dell’Irap e dalla riduzione dell’Ires per chi non distribuisce ma investe gli utili societari, destinate a essere inserite nella riforma fiscale. È sul cuneo fiscale, quindi, che il Governo deve intervenire al più presto, magari con un ulteriore “taglio- choc” invocato dalle forze politiche. Il principale effetto di una forte “sforbiciata” del carico fiscale sui redditi più bassi è presto detto: più soldi in busta paga per i lavoratori che guadagnano di meno, senza ulteriori aumenti dei costi per le imprese e senza intaccare i contributi a fini pensionistici. Se poi alla progressiva “demolizione” del cuneo fiscale si associasse la conferma degli sgravi dei contributi previdenziali dovuti dai datori di lavoro, misura che il governo ha prorogato fino al 31 dicembre di quest’anno, per le imprese e i lavoratori meridionali potrebbe presto arrivare una svolta positiva. Qualcuno obietterà: e le coperture dove le troviamo? La risposta è semplice: dal taglio della spesa pubblica improduttiva che da decenni impedisce di destinare risorse adeguate a misure indispensabili per il rilancio dell’economia nazionale, a cominciare proprio da quella del Mezzogiorno. Raffaele Tovino *dg Anap
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