LICENZIATO IL DIPENDENTE CHE AVEVA OMESSO DI COMUNICARE I CARICHI PENDENTI ISCRITTI A SUO CARICO NEL CASELLARIO GIUDIZIALE, E MINACCIATO I COLLEGHI DI LAVORO CHE NE AVEVANO FATTO MENZIONE
La Cassazione ha confermato il licenziamento per giusta causa del dipendente che aveva omesso di comunicare la sussistenza di procedimenti penali a suo carico, e minacciato i colleghi affinché ritrattassero le dichiarazioni rese in occasione di un precedente procedimento disciplinare, stante il carattere intenzionale della condotta che impedisce la prosecuzione del rapporto.
La pronuncia di legittimità in esame ha origine dal ricorso presentato avverso la sentenza della Corte d’Appello di Napoli, avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare irrogato dalla società datrice al dipendente.
Il Fatto
La società Poste Italiane S.p.A., a seguito di un procedimento disciplinare, aveva provveduto ad intimare il licenziamento per giusta causa ad uno dei suoi dipendenti, per aver omesso di comunicare i carichi pendenti iscritti a suo carico nel casellario giudiziale, e, per aver minacciato alcuni colleghi di lavoro, abusando della sua posizione di supervisore, affinché ritrattassero le dichiarazioni rese in occasione di un altro, precedente, procedimento disciplinare.
Avverso tale decisione il dipendente aveva presentato ricorso. La domanda tuttavia veniva rigettata in primo grado come in appello.
Il Diritto
Risultato soccombente in entrambi i gradi di giudizio il lavoratore ricorreva in Cassazione innanzi alla quale sollevava due motivi di ricorso.
Nello specifico il ricorrente eccepiva la tardività della contestazione relativa al primo addebito, ovvero al primo procedimento disciplinare a suo carico: in tale circostanza la società datrice era stata edotta delle minacce rivolte ai colleghi di lavoro in data 26/09/2016, tuttavia aveva inviato la contestazione solo il successivo 17/05/2017, in violazione del principio dell’immediatezza della contestazione.
In ordine al secondo motivo adduceva la violazione dell'art. 2119 c.c. da parte della Corte di Appello per non aver seguito e rispettato i criteri, dettati generalmente dalla Cassazione, per giungere al giudizio di responsabilità del dipendente ed alla conseguente irrogazione del licenziamento per giusta causa.
La Cassazione rigettava il ricorso partendo dal secondo motivo, ritenendo la gravità dell’omessa comunicazione dei risultati del casellario giudiziale, superata, ovvero meno grave della condotta assunta dal dipendente in occasione della prima contestazione disciplinare relata alle minacce rivolte ai colleghi, e finalizzata a ritrattare le dichiarazioni rese dagli stessi proprio in merito alla sussistenza di procedimenti penali a suo carico, poiché “intenzionale, spinta fino ai limiti della rilevanza penale”.
Dunque, per la Suprema Corte la gravità della condotta assunta del supervisore, sia in occasione del primo che del secondo procedimento disciplinare, ed il carattere intenzionale della medesima, non poteva di certo dirsi confacente alla posizione gerarchica rivestita, ed era sufficiente a giustificare il venir meno della fiducia da parte della società datrice circa l’esatto adempimento di prestazioni future.
Inoltre, gli Ermellini consideravano tali motivazioni sufficienti a superare l’eccezione di tardività della contestazione, sollevata sia in ordine al primo che al secondo addebito, ed a comprovare la giusta causa di recesso.
Peraltro, sempre in merito alla tardività della contestazione, la Cassazione, confermava quanto già asserito dalla Corte d’Appello, ovvero che la stessa era da imputare alle considerevoli dimensioni della società datrice, la cui complessità organizzativa aveva sicuramente comportato una dilatazione dei tempi per avviare la procedura ed eseguire una verifica interna sui fatti a carico del ricorrente:
“il requisito della immediatezza della contestazione va inteso in senso relativo, potendo essere compatibili, nei limiti della regola della buona fede e della correttezza nell'attuazione del rapporto da parte del datore di lavoro, con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo."
*****
Il licenziamento per giusta causa può essere disposto dal datore di lavoro quando il lavoratore realizza comportamenti disciplinarmente rilevanti, così gravi da non consentire, anche in via provvisoria, la prosecuzione del rapporto di lavoro.
La nozione di giusta causa si rinviene nell’art. 2119 c.c., il quale prevede che “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto “.
La giusta causa si sostanzia in un inadempimento talmente grave che qualsiasi altra sanzione diversa dal licenziamento risulta insufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro, idoneo a riflettersi nell’ambiente di lavoro e a far venire meno la fiducia che caratterizza il rapporto di lavoro.
Pertanto, la giusta causa rappresenta il licenziamento disciplinare per eccellenza: consente di troncare immediatamente il rapporto di lavoro, ed il datore di lavoro non è tenuto ad erogare indennità di preavviso.
In quanto sanzione disciplinare, il licenziamento per giusta causa deve essere necessariamente preceduto dall’attivazione dell’obbligatorio procedimento disciplinare e in particolare dalla preventiva comunicazione delle “contestazioni di addebito”, al fine di consentire al dipendente una adeguata difesa.
Al riguardo si invoca il principio di immediatezza della contestazione disciplinare, ovvero il principio secondo cui la contestazione del comportamento illecito deve avvenire a distanza di un breve lasso di tempo dalla conoscenza dei fatti da parte del datore di lavoro.
La legge non stabilisce il periodo massimo che deve intercorrere tra la conoscenza del fatto e l’avvio del procedimento disciplinare, per cui esso va adeguato alle circostanze del caso concreto.
Di certo assume rilievo il momento in cui il datore viene a conoscenza dell’illecito, in quanto solo a decorrere dallo stesso il datore può effettuare le sue valutazioni circa l’apertura di un procedimento disciplinare.
Quanto al requisito della immediatezza della contestazione, secondo la giurisprudenza va inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa far ritardare l’iniziativa datoriale (Cass. 12824/2016).
Dunque, come argomentato dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, i parametri principali in base ai quali valutare l’adeguatezza della tempistica per l’emissione della contestazione disciplinare sono le:1)dimensioni dell’azienda, e 2)la complessità dei fatti oggetto della contestazione.









