Niente più “schiavi” con la settimana corta
“Spalmare” l’impegno dei lavoratori su soli quattro giorni può stimolare i consumi oltre che ridurre la disoccupazione: Emirati, Giappone, Belgio e Spagna sono già su questa strada mentre l’Italia continua ad arrancare.
Com’è che ha detto papa Francesco? «Senza giusto salario e senza giusto orario lavorativo si creano nuove forme di schiavitù». E ancora: «Non siamo al mondo per sopravvivere, ma perché a tutti sia consentita una vita degna e felice». Si badi bene, per Bergoglio non basta che il corrispettivo della prestazione effettuata dal lavorato resia congruo. Altrettanto importante è che l’orario lavorativo sia sostenibile o, comunque, tale da non fare del dipendente o del collaboratore uno schiavo. Peccato che in Italia questo rischio, strettamente connesso al tema della sicurezza sul lavoro, si concretizzi fin troppo spesso e che la discussione sulla settimana corta o sugli strumenti di welfare indispensabili per conciliare vita e professione sia alquanto distratto e superficiale. Partiamo dallo stato dell’arte. Troppo spesso si sottovalutano le conseguenze psico-fisiche di fattori di rischio come orari di lavoro troppo lunghi, elevati ritmi lavorativi e difficoltà nel conciliare impegni professionali e personali.
Eppure, secondo la scienza, lavorare per più di 40 o 48 ore a settimana, magari anche su turni, aumenta la probabilità di andare incontro a malattie, disabilità e alterazioni comportamentali. Addirittura, per il lavoro a turni, sono stati «riportati eccessi di tumori della mammella e della prostata». Senza dimenticare che la ridotta disponibilità di tempo da dedicare al riposo, allo svago o ai propri cari incide negativamente non solo sul lavoratore, ma anche sulla famiglia, in termini di peggioramento della qualità delle relazioni, sulla comunità, sotto forma di costi legati all’incremento di malattie e infortuni, e persino sul datore di lavoro, che vede ridursi la produttività del dipendente o collaboratore. Molti Paesi hanno risposto con la settimana lavorativa corta, cioè “spalmando” l’impegno del lavoratore su soli quattro giorni ogni sette.
Questa soluzione contribuisce non solo a strutturare un sistema produttivo migliore e a stimolare i consumi, ma anche a combattere la disoccupazione: se si lavora di meno, c’è più spazio per tutti, a patto che i salari restino invariati. La pensano così in Belgio, dove da quest’anno si lavora di meno e senza patire alcun taglio dello stipendio, ma anche in Islanda, Spagna ed Emirati Arabi, primo Stato a consentire alle persone di lavorare dal lunedì al venerdì mattina. In Giappone, già nel 2019 la Microsoft aveva deciso di concedere un giorno di riposo in più ai propri dipendenti, ottenendo così un aumento della produttività del 40%. E l’Italia? Resta fanalino di coda. Dalle nostre parti sembra impossibile anche il solo fatto di ipotizzare una riduzione della settimana lavorativa che, ovviamente, imporrebbe incentivi alle imprese, investimenti nel mercato del lavoro, formazione e creazione di posizioni professionali caratterizzate da competenze specifiche. Insomma, la soluzione ipotizzata dai governi di mezzo mondo può piacere o meno, ma ora sarebbe il caso quantomeno di discuterne. E poi c’è il tema dei servizi. La scienza parla chiaro: il conflitto casa-lavoro è uno dei dieci fattori stressogeni lavorativi più importanti. Per limitarlo è indispensabile strutturare quella rete di servizi – a cominciare dagli asili nido – che offrono un valido sostegno al lavoratore sul quale incombono responsabilità familiari. Anche su questo l’Italia è indietro. Mentre avanza quell’esercito di uomini e donne rassegnati a essere non più lavoratori ma schiavi, come paventato da papa Francesco.
di RAFFAELE TOVINO









