Quale futuro per il mercato del lavoro
Il sasso nello stagno l’ha lanciato Intesa Sanpaolo, pronta a darsi una struttura più agile e dinamica e a trovare soluzioni organizzative che consentano al personale di conciliare professione e vita privata. Il colosso dei servizi finanziari si appresta a proporre ai suoi 74mila dipendenti italiani l’introduzione della settimana lavorativa corta. E qualora si trovasse l’accordo con le sigle sindacali, nel giro di qualche mese il personale potrebbe ritrovarsi a lavorare per soli quattro giorni a settimana e a operare in smart working per 120 giorni l’anno. Qualcuno chiederà: possibile? Sì, possibile. E forse anche giusto, se non addirittura doveroso. Perché la settimana corta è ormai una realtà consolidata nelle aziende di tanti Paesi che l’hanno adottata per migliorare la produttività dei dipendenti. E, tra i suoi effetti, spiccano quelli di stimolare i consumi e combattere la disoccupazione. È il caso di Belgio, Islanda, Spagna, Emirati Arabi e soprattutto del Giappone, dove la concessione di un giorno di riposo settimanale in più ha consentito a Microsoft di incrementare la produttività dei dipendenti del 40% in meno di tre anni. In Italia, invece, eccezion fatta per realtà come Intesa Sanpaolo, di questo tema strategico nemmeno si discute. Eppure “spalmare” l’impegno del personale su quattro giorni può essere la svolta per il mercato del lavoro italiano, tradizionalmente asfittico. Il primo effetto può essere quello di ridurre la disoccupazione: se si lavora di meno, c’è più spazio per tutti, a patto che i salari restino invariati. La pensano così in Belgio, dove da quest’anno l'impegno dei lavoratori è ridotto e non si patisce alcun taglio dello stipendio. Tutto ciò, ovviamente, impone incentivi alle imprese, investimenti nel mercato del lavoro, formazione e creazione di posizioni professionali caratterizzate da competenze specifiche: misure che, al momento, non sembrano nell’orizzonte dei nostri amministratori. Secondo la scienza, inoltre, lavorare per più di 40 o 48 ore a settimana, magari anche su turni, aumenta la probabilità di andare incontro a malattie, disabilità e alterazioni comportamentali. Senza dimenticare che la ridotta disponibilità di tempo da dedicare al riposo, allo svago o ai propri cari incide negativamente non solo sul lavoratore, ma anche sulla famiglia, in termini di peggioramento della qualità delle relazioni, sulla comunità, sotto forma di costi legati all’incremento di malattie e infortuni, e persino sul datore di lavoro, che vede ridursi la produttività del dipendente o collaboratore. Non è un caso, dunque, che circa un pugliese su due, secondo l’indagine condotta da Adp Research Institute, si dica pronto ad accettare una riduzione della retribuzione, a patto che ciò contribuisca a migliorare l’equilibrio tra lavoro e vita privata. Ed è altrettanto significativo che una quota così ampia dei pugliesi si dica disposta a lavorare anche dieci ore al giorno pur di avere un giorno libero in più a settimana. Non si tratta solo di un segnale forte lanciato da dipendenti e collaboratori, sempre più interessati al fatto che l’orario di lavoro sia sostenibile, anche in considerazione della cronica carenza di quegli strumenti di welfare –basti pensare agli asili nido al Sud – indispensabili per consentire alle persone di conciliare impegni professionali e responsabilità familiari. I risultati dell’indagine condotta da Adp Reserach Institute rappresentano anche un monito alla classe politica affinché apra un dibattito serio su uno strumento capace di ridurre la disoccupazione e migliorare la qualità della vita di milioni di italiani.









